Sacchetti bio: la posizione della Gdo

2018-01-05T16:58:47+02:005 Gennaio 2018 - 16:58|Categorie: Retail|Tag: |

È tutto un grande abbaglio. Questo emerge nella selva di cori di proteste che si sono scatenati negli ultimi giorni sulla vicenda dei sacchetti bio per l’ortofrutta. Una normativa che “la Ue ci impone”, ma non nei termini in cui ha preso forma.

Ma facciamo un passo indietro. Di cosa si parla? Dal 1° gennaio i sacchetti dell’ortofrutta nei punti vendita della Gdo si pagano. Il costo varia tra 1 e 3 centesimi, a seconda delle insegne. E il provvedimento si deve al recepimento della direttiva europea 2015/720 sulla riduzione dell’utilizzo di borse di plastica in materiale leggero. Nota bene: l’Italia è il primo paese che adotta questo provvedimento. E qui sorge la prima domanda: perché tanta fretta?

Sui social network e nei punti vendita, immediate, iniziano le contestazioni. Prima imputata: la Distribuzione moderna. Che è accusata di speculare sul costo dei sacchetti. Un po’ di chiarezza cerca di farla, in un tweet pubblicato il 3 gennaio, Mario Gasbarrino, amministratore delegato di Unes/U2 Supermercati: “Prima regalavamo sacchetti che ci costavano 0,6 cent, i nuovi ci costano 2,44 e li vendiamo a un cent, quindi vendendoli sottocosto ci rimettiamo il triplo (1,84 cent). Chi li vende a due/tre cent a breve li abbasserà (è la concorrenza signori)”. Gli fa eco Francesco Pugliese, a.d. di Conad: “Il prezzo medio applicato dalla Gdo è di qualche centesimo, quindi sotto il prezzo di acquisto della filiera a monte del consumatore finale. L’unica con il consumatore a perderci è la Gdo”. E il presidente di Coralis, Eleonora Graffione incalza: “Ancora una volta disinformazione e cattiva informazione alimentano polemiche contro la Distribuzione, necessario fare chiarezza per i nostri clienti”.

Si fanno anche i conti. L’incidenza media del balzello per il consumatore, nel reparto ortofrutta, è minima: si parla di una cifra tra i quattro e gli otto euro l’anno. Ma il business vale 400 milioni di euro: non male… Subito prendono forma i voli pindarici per aggirare l’ostacolo del pagamento. Così precisa il ministero della Salute: “No al riutilizzo dei sacchetti bio quando si acquista frutta e verdura al supermercato, ma non siamo contrari all’impiego di buste monouso nuove che il cittadino può portare da casa”. Una follia allo stato puro. E chi controlla che i sacchetti siano nuovi?

Ma la questione più spessa è un’altra. Lo spiega bene un tweet, sempre di Gasbarrino: “A me sorprende di più che, a due giorni dall’entrata in vigore della legge, nessuno (stampa e noi della Gdo) abbia capito che l’errore è nel divieto di cederlo gratis, dimenticando che è un imballo primario (fa parte del prodotto!) e da che mondo è mondo il suo costo (e l’eventuale tassa) è nel prezzo di vendita”. Vale a dire che il biosacchetto è diverso dallo shopper per la spesa, che è un imballo secondario e quindi facoltativo. Paradossalmente, poi, al cliente è imposto di pagare il sacchetto biologico ma non paga (nella sua percezione) la frutta e la verdura già confezionata, molto più inquinante.

E quindi qual è la soluzione? Cambiare la legge togliendo il cavillo che rende obbligatorio il pagamento del sacchetto. Viene alla mente una definizione di Totò che diceva: “Nel mondo esistono cose reali e cose supposte”. Il biosacchetto fa parte delle seconde. Un posto scomodo dove mettere la frutta…

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