La storia e le scelte strategiche che hanno reso l’insegna campana un punto di riferimento nella Gdo. Dagli albori fino al modello, ispirato a Esselunga e alle insegne americane. Il fondatore racconta le sfide affrontate e le intuizioni vincenti. Con al centro la ristorazione.
Di Angelo Frigerio
Dalla bottega di famiglia aperta nel dopoguerra a una rete che conta 22 supermercati, la storia di Piccolo Supermercati è un esempio di crescita e innovazione nel settore della grande distribuzione organizzata. Michele Piccolo, alla guida dell’azienda, racconta il percorso che lo ha portato a trasformare una piccola bottega in un punto di riferimento del food retail in Campania. Dalla valorizzazione della gastronomia artigianale alla visione del ‘community food’, passando per un format che combina qualità e convenienza, l’imprenditore svela i segreti del successo dell’insegna campana.
Ci racconti la storia dei supermercati Piccolo.
Il seme di questa azienda è stato messo nel 1946, quando i miei genitori, Raffaele e Giuseppina Piccolo, avevano allestito la prima bottega rurale, nell’estrema periferia di Sant’Anastasia, nella città metropolitana di Napoli. Sono poi subentrato io nella gestione, perché sono stato l’unico dei cinque figli a non aver studiato. Mio padre sosteneva che per fare il facchino non c’era bisogno di una laurea, quindi non sono andato a scuola. Dalle mie parti si dice spesso – e lo diceva anche mio padre – : “Quello che ti trovi è quello che ti fai con le tue mani”. E questo è quello che è successo, non si litigava, ma lavoravo e obbedivo soltanto. La bottega di famiglia è andata avanti fino al 1980, poi dall’80 all’88 abbiamo gestito un’attività di ingrosso io e un altro mio fratello. Nell’87 nasceva il primo supermercato e nell’88 ci siamo divisi. Lui ha continuato a seguire il cash and carry e a me è rimasto il supermercato.
Che è stato aperto a Sant’Anastasia.
Esatto, il primo supermercato, di 300 metri quadrati, è stato inaugurato lì. Ci è voluto del coraggio, ma non c’erano alternative. La location era ‘sperduta’ ma non si poteva fare diversamente. Era un posto dove non ci trovavano i fornitori e, quindi, facevano fatica a trovarci anche i clienti. La certezza di poterci trovare era solo dell’Agenzia delle Entrate…
La superficie del punto vendita poi si è ampliata, giusto?
Si è allargata, arrivando a circa 1.800 metri quadrati. I laboratori erano gli stessi che abbiamo oggi. E sono proprio quello che ci distingue, dalla gastronomia, al pane, ai dolci. Altri pezzi forti, prodotti da sempre, sono gli gnocchi fatti a mano e la pizza con scarola. Un tempo questi reparti non erano a vista come quelli che ci sono ora. Il nostro modello è ispirato a quello degli Stati Uniti, dove si compra e si consuma più cibo cotto che crudo. Ma è anche quello di Esselunga, i nostri maestri.
Quali sono stati gli altri punti vendita aperti, dopo Sant’Anastasia?
Nel 1995 abbiamo aperto quello di Castello di Cisterna, in provincia di Napoli, con una superficie di 400 metri quadrati. Poi è seguito un altro ancora a Sant’Anastasia, in centro, nel 1996, con una superficie di 500 metri quadrati. Nello stesso anno abbiamo inaugurato anche il supermercato di San Vitaliano, che oggi è di 600 metri quadrati netti. Poi abbiamo aperto a Nola, dove ne abbiamo tre, e infine siamo arrivati al Vulcano, un grande centro commerciale che aveva alle spalle una storia con due chiusure e oggi ha una proiezione di 25 milioni di fatturato all’anno.
I nuovi punti vendita hanno sempre la cucina a vista?
Sì, e sono molto belli perché c’è tanto spazio fuori. Oltre alla porta girevole ci sono le fontane danzanti e un altro gioco d’acqua, un elevatore che si usava per irrigare i campi. Abbiamo poi messo il laghetto con i pesciolini, una cosa molto simpatica.
A quanti supermercati siete arrivati?
Sono 22 supermercati, oltre a un cash and carry. Miglioreremo poi il supermercato di Pomigliano, di 1.600 metri quadrati. Abbiamo in programma di aprirne un altro, di 6mila metri quadrati di copertura, che inizieremo a breve. Ci saranno anche una grande pasticceria e una panetteria, che comprenderà anche un mulino. Invece della farina ci arriverà il grano, che è una cosa unica.
Quali sono state le performance dell’azienda nel 2024?
Oggi abbiamo 1.650 dipendenti e il fatturato è di 320 milioni di euro. Il segreto è il format: non ce n’è di uguali. All’entrata si viene accolti dal bar e dalla ristorazione, seguiti poi dalla gastronomia, con proposte per chi non può o non vuole cucinare, oltre che per chi non può permettersi di mangiare al ristorante.
Sul vostro sito si legge che siete una ‘community food’.
Esatto, è cibo nella comunità: noi ci occupiamo anche del sociale, perché offriamo piatti per tutte le tasche. Al ristorante si mangia bene e i prezzi sono accessibili. I numeri li facciamo nel volume, anziché nella percentuale. Preferisco perdere una parte di margini piuttosto che un cliente.
È ciò che vi consente una delle più alte redditività per metro quadro nel food retail…
Sì, siamo terzi in Italia, dopo Esselunga e Unicoop Firenze. Alcuni nostri punti vendita fatturano circa 25mila euro per metro quadro, ma, nel complesso, siamo sui 15mila circa. Abbiamo circa 700 prodotti a marchio Piccolo, quelli che vendono meglio sono soprattutto gli alimentari.
Quali sono i progetti futuri dell’azienda?
Abbiamo comprato dei terreni che dobbiamo edificare. Il lavoro non manca anche per l’ampliamento del centro di distribuzione. Ho sempre cercato di fare bene ciò a cui mi dedico, avvicinandomi alla perfezione. L’importante è lasciare un segno, e la soddisfazione non è solo materiale. Proviene anche da quei momenti in cui un cliente, invece di dire che è al supermercato, sottolinea: ‘Sto da Piccolo’