Il disegno di legge sull’etichettatura dei formaggi prodotti con materia prima non termizzata. Il loro valore culturale e identitario. E la necessità di investire in tecnologie diagnostiche e formazione. Intervista con il project leader di B2Cheese, su uno dei temi più caldi del momento per il comparto lattiero caseario.
Il dibattito intorno ai formaggi a latte crudo non accenna a raffreddarsi. Lo hanno alimentato diversi fatti di cronaca. Nell’ultimo anno, infatti, i giornali hanno dato spazio a casi di bambini che, consumando formaggi a latte crudo contaminati, hanno contratto infezioni da Escherichia coli, che in alcuni casi hanno perfino portato alla morte. Tra loro, Mattia, i cui genitori hanno iniziato una campagna di sensibilizzazione chiedendo di meglio comunicare i rischi connessi al consumo di prodotti a latte non termizzato per alcune categorie di consumatori più fragili. Il senatore Lorenzo Basso (Pd – Idp), accogliendo il loro appello, ha presentato lo scorso luglio un Ddl che introduce norme più severe rispetto all’etichettatura di simili referenze.
Da quando si è acceso il dibattito, comunque, enti e istituzioni si sono mossi per analizzare e incrementare il livello di sicurezza alimentare della filiera del latte crudo. Dal canto loro i produttori non mancano di sottolineare l’importanza dei controlli. Tra questi, Francesco Maroni, project leader di B2Cheese, fiera internazionale bergamasca dedicata al settore lattiero caseario. Maroni, che tra le altre cose gestisce insieme alla sua famiglia la Latteria di Branzi, specializzata nella produzione di formaggi a latte crudo, ci racconta il suo punto di vista sul Ddl Basso e sulla sicurezza alimentare dei prodotti con latte non termizzato.
Che cosa pensa del disegno di legge che prevede obblighi più severi per l’etichettatura dei formaggi a latte crudo?
Apporre questa tipologia di etichetta è, a mio avviso, molto pericoloso perché potrebbe avere conseguenze sull’intero mercato dei formaggi a latte crudo. Non esiste infatti un’emergenza sanitaria: i casi rilevati di sindrome emolitico uremica (Seu) in Italia fra il 2023 e il 2024 sono stati 68, di cui 56 da Escherichia coli produttori di Shiga-tossina (Stec) (la Seu è la più grave complicanza da infezione da Stec, ndr). Questo batterio, però, non si contrae esclusivamente dal latte crudo contaminato e prodotti derivati, ma anche da carne cruda o poco cotta, frutta e verdura se non lavate correttamente, acqua e alimenti surgelati contaminati. Anche luoghi come stalle, fattorie didattiche o acque di balneazione possono essere fonti di infezione. Non bisogna naturalmente prendere alla leggera i casi legati a latte crudo o formaggi a latte crudo contaminati, sono anzi da affrontare con serietà, con adeguate ricerche e con il coinvolgimento di aziende agricole, caseifici ed enti e istituzioni preposti: se esiste un problema sanitario in una malga, non sarà un’etichetta a risolverlo.
Come il dibattito mediatico sui formaggi a latte crudo sta influenzando la percezione che il consumatore ha di questa tipologia di prodotto?
Il consumatore reagisce di pancia: i pochi casi che hanno trovato spazio sulle pagine della cronaca, e il conseguente dibattito sulla dicitura in etichetta, hanno fatto sì che iniziasse a percepire tutti i formaggi a latte crudo come pericolosi per i bambini. Ma si tratta di una rischiosa generalizzazione. Pure in passato sono stati fatti grandi errori sulla comunicazione del latte crudo e dei suoi derivati…
A che cosa si riferisce?
Penso, in particolar modo, ai distributori automatici di latte crudo: dinamite nelle mani dei consumatori, perché è un prodotto che richiede una gestione attenta a livello casalingo e porta dunque con sé rischi inutili. Perché non dare alle aziende agricole la possibilità di pastorizzare il proprio latte e venderlo imbottigliato?
Qual è il valore culturale delle produzioni casearie a latte crudo, che, nell’immaginario collettivo, sono principalmente legate ai territori di montagna?
L’Italia è il paese del latte crudo: le grandi Dop – Parmigiano Reggiano e Grana Padano – sono a latte crudo, tanto per cominciare. Ci sono poi un’infinità di produzioni casearie baluardo di artigianalità e tradizione. Per i territori di montagna, inoltre, il valore identitario e storico è ancora più significativo, vista la presenza di numerose piccole attività, che ancora conservano tecniche di produzione antiche e manuali. Ovviamente ovunque in passato non si lavorava altro che latte crudo, anzi era quasi sinonimo di salubrità del prodotto, perché la materia prima, non trattandola termicamente, conserva tutte le sue caratteristiche organolettiche. Nel tempo, poi, con l’avvento della produzione su scala industriale, si è iniziato a termizzare il latte per ragioni di sicurezza, specialmente su prodotti che presentano determinate caratteristiche e risultano particolarmente delicati.
Quali misure, oltre a quelle esistenti, dovrebbe adottare l’intera filiera per rendere più sicuro un prodotto a latte crudo?
I primi piani di controllo risalgono a 25 anni fa, ma solo recentemente la pericolosità degli Stec è diventata nota al grande pubblico. Ma occorre trattare questo batterio come qualsiasi altro patogeno. Naturalmente è necessaria sempre maggiore ricerca con strumenti analitici e procedure altamente specifiche, che non sempre sono accessibili a tutte le realtà produttive, soprattutto quelle più piccole. Occorre dunque incrementare ed eseguire in maniera sempre più attenta e puntuale i test sui singoli lotti in modo che possano essere ritirati tempestivamente dal mercato. È indispensabile investire in tecnologie diagnostiche rapide e potenziare la formazione lungo tutta la filiera, coinvolgendo microcaseifici e produttori senza marchio Ce, caseifici medio-grandi e industria lattiero casearia. Il dialogo e la cooperazione con enti come Ats sono fondamentali per implementare controlli preventivi e sistemi di monitoraggio efficaci.
Per concludere, come ridare fiducia al consumatore rispetto a questa tipologia di formaggio tutelando, al tempo stesso, i produttori e ciò che il loro prodotto rappresenta?
Occorre trasmettere il messaggio che tutti i prodotti, anche quelli a latte crudo, sono sicuri perché sottoposti ad adeguati controlli lungo tutta la filiera. Se poi accade che un formaggio a latte crudo sia causa di un’intossicazione, bisogna avere la consapevolezza che si tratta di un caso isolato, proprio come già accade per qualunque altro prodotto alimentare. La sicurezza alimentare è una responsabilità condivisa. Solo con un approccio integrato, che unisca innovazione tecnologica, formazione e collaborazione, sarà possibile arginare i problemi sanitari. Motivo per cui occorre investire sulla ricerca. Decreti ed etichette non sono una soluzione, al contrario rischiano di contribuire a diffondere una percezione generalizzata di insicurezza alimentare.