Casa, luce, legna. E merito…

2022-12-06T12:00:12+01:006 Dicembre 2022 - 11:59|Categorie: Editoriali del direttore|Tag: |

Angelo Rossi è un mito. Dopo aver lavorato come amministratore delegato e direttore generale in Dilat per 20 anni e successivamente come dirigente in Granarolo, nel 2000 si è inventato Clal, una società di rilevazione dati nel mondo caseario e della carne. Un gruppo di analisti che ogni giorno monitorano le variazioni dei prezzi di latte e latticini, suini e bovini, materie prime e molto altro. Un aiuto fondamentale, per aziende e operatori del settore, al fine di comprendere le evoluzioni dei mercati e le loro prospettive.

Interessante la sua testimonianza di come venivano trattati i dipendenti ai primi del ‘900: “A quell’epoca gli industriali costruivano zuccherifici in aree geografiche dove si producevano barbabietole da zucchero. Moltissime fabbriche ora sono state chiuse grazie ad accordi in Ue (periodo in cui Gianni Alemanno era ministro dell’Agricoltura). Le fabbriche non avevano mano d’opera e si rivolgevano ai braccianti locali, agli operai generici e a qualche operaio specializzato. Lo zuccherificio locale investiva in attività finalizzate a favorire l’avvicinamento della mano d’opera.  Nelle vicinanze della fabbrica funzionava uno spaccio alimentare, aperto ai famigliari degli operai, dove si acquistavano alimentari e non solo a prezzi ridottissimi. Agli operai veniva consegnato un importante pacco natalizio; i figli degli operai venivano ospitati gratuitamente al mare, in una colonia estiva. Al Maestro d’Opera, nei maggiori casi proveniente dalla categoria degli operai, veniva fornito un appartamento, costruito o locato dallo zuccherificio nelle vicinanze della fabbrica. Le spese del riscaldamento e dell’energia elettrica erano a carico dello zuccherificio. Da qui il motto ‘l’Azienda paga: casa, luce e legna’.

Il racconto di Angelo Rossi mi richiama alla mente una storia personale. Sono fra i pochi che hanno frequentato le elementari e scritto con pennino e inchiostro. Il bidello arrivava tutte le mattine a riempire di liquido nero i calamai. Eravamo in 35 in aula, tutti maschi naturalmente. Le classi miste sarebbero arrivate più tardi. Un unico maestro, Giovanni Panico di Palermo, salito al Nord per trovare lavoro. Ricordo ancora le file di grembiulini neri, il colletto bianco con il fiocco blu quando il maestro ci portava in cortile per l’intervallo. Lì poteva salutare la dolcissima moglie Francesca, maestra anche lei. Gestiva una classe solo femminile. Ci si guardava da lontano fra maschietti e femminucce, gli sguardi e gli ammiccamenti erano sfuggevoli e intrisi di vergogna…

Sino a poco tempo prima funzionava così: il figlio del medico diventava medico, così quello del farmacista, dell’avvocato, del notaio. Difficile entrare nel meccanismo di selezione naturale. Soprattutto per i figli degli operai. Fino a quando non vennero messe in atto, grazie ai governi democristiani con l’aiuto dei comunisti, una serie di iniziative a favore dell’ascensore sociale. I più bravi e meritevoli, di qualunque ceto, potevano andare avanti. In due (entrambi figli di operai), nella mia classe, vinsero la borsa di studio: io ed Emilio Mariani, che diventerà poi il mio dottore.

Piccolo particolare: il mare l’ho visto, per la prima volta, a 10 anni, in colonia a Riva Trigoso (Genova) dalle suore. Ci portavano in spiaggia, ci facevano giocare con la sabbia e poi il bagno, cinque minuti non di più. Con una monaca ‘bagnina’ che, con il fischietto, scandiva i tempi di entrata e uscita dall’acqua. Ricordo anche i premi della Cassa di risparmio delle province lombarde (oggi Intesa) ai migliori alunni: un salvadanaio e mille lire. Una mancia pagata purtroppo dai miei genitori, come da moltissimi altri lumbard, che affidarono alla banca i loro risparmi in cartelle. Dall’oggi al domani quelle cartelle vennero bloccate. I soldi non si potevano toccare. Uno dei furti legalizzati più iniqui e scandalosi nella storia del Dopoguerra.

Anche alle medie vinsi una borsa di studio, come pure alle superiori. In questo caso ricordo la cifra: 250mila lire all’anno per cinque anni. Unica condizione: dovevo essere promosso a giugno ogni anno. Tanta roba. Poi l’università con il presalario. Il ’68 e le sue ripercussioni ideologiche spazzarono via tutto. La logica del “dobbiamo essere tutti uguali” prevalse. L’ascensore sociale si fermò. Il concetto di merito venne abolito in nome di un egualitarismo bolso e ipocrita. Che ha fatto il gioco di baronie e centri di potere. Andate a vedere cosa succede in talune università: i docenti sono sempre gli stessi, cambiano i nomi ma i cognomi rimangono tali e quali. Ecco allora che riproporre la questione del merito diventa una strada da percorrere. Non basta certo invocarlo nei programmi. Occorre introdurre dei meccanismi per valorizzarlo a tutti i livelli, nelle scuole come nelle aziende. E perché mai il dipendente che cazzeggia e ‘tira sera’ dovrebbe prendere lo stesso stipendio di quello che lavora con coscienza e professionalità? Giusto e sacrosanto introdurre i bonus. E’ un ritorno all’azienda che pagava: casa, luce e legna. Bei tempi…

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