Nel nome del padre

2021-06-11T10:23:26+01:0011 Giugno 2021 - 10:23|Categorie: Editoriali del direttore|Tag: , |

Il presidente Mattarella, a metà maggio, ha dichiarato a un gruppo di ragazzi: “Sono vecchio, fra qualche mese potrò riposarmi”. Ricorda molto la figura di mio padre. A letto, fiaccato dal Parkinson, negli ultimi giorni della sua vita mi confidava: “Angelo, sono stanco”. Il sciur Mario, come lo chiamavano in ditta, è stato uno dei piccoli grandi artefici del miracolo economico italiano. Classe 1925, aveva fatto la guerra per pochi mesi ma aveva vissuto soprattutto il Dopoguerra. Anni durissimi: si lavorava tanto, si prendeva poco. Tutti i giorni alla Breda di Sesto San Giovanni, la sera a casa dove lo aspettava una patata bollita e una minestra con improbabili verdure.

Mio padre è sempre stato una persona onestissima, mai rubato nulla. Ma, in quegli ultimi giorni, mi confidò che un furto l’aveva fatto. Un suo compagno di lavoro arrivava sempre in mensa con un schiscetta piena di cose buone e di un pane croccante. Non lo mangiava tutto. Ne lasciava le croste. “Angelo, avevo vent’anni e una fame da lupo”, mi raccontò. “Un giorno andai nel suo armadietto e gli rubai le croste del pane”. Sorrisi mentre me lo raccontava. Il Mario era benvoluto da tutti.

Dopo una lunga gavetta era riuscito a diventare direttore di una piccola trancia in Brianza. Un giorno, erano in sciopero, si presentò un autotrasportatore. Era stato in giro per l’Europa e non tornava a casa da due settimane. Si avvicinò a mio padre e chiese: “Mi potete scaricare il tronco? Vorrei rivedere la mia famiglia. Ho un figlio piccolo di un anno”. Il Mario non se lo fece ripetere due volte. Chiamò il Ferracane, un omone del Sud, comunista da sempre. Insieme scaricarono il camion. Ma alcuni sindacalisti se ne accorsero. Scoppiò un putiferio con accuse varie: “Crumiri, non si lavora quando c’è sciopero, venduti”. Il lunedì successivo mio padre venne chiamato in direzione e redarguito severamente. Ma la sua risposta fu decisa e sincera: “Lo rifarei subito”.

Ripenso sempre a lui quando mi parlano delle nuove generazioni. Un trentenne su due abita ancora con i genitori. E per definire questo fenomeno si è coniata addirittura una parola: ‘adultescenza’. Sono i figli della birretta, dell’aperitivo della sera, della serata in discoteca. E ancora: dell’eterna fidanzata che muore dalla voglia di sposarsi ma ‘quello’ non ne vuole sapere. Oppure delle cento ragazze da ‘una botta e via’. Ci sono poi quelli di ritorno. Si sono sposati, dopo un paio d’anni si sono separati, magari con un figlio, e sono ritornati da mamma e papà.

Il Mario e la Lina si sposarono a 20 anni. In viaggio di nozze andarono a Rapallo, in Liguria. Quattro giorni, non di più. Ebbero due figli. Insieme presero una decisione coraggiosa: mia madre lasciò un lucroso lavoro di parrucchiera – tante volte ci penso, oggi avrei potuto avere un negozio ‘Da Angelo, belli capelli’, altro che il giornalista – e si mise al ‘servizio’ della famiglia. Felice, senza rimorsi. E quando il figlio, un giorno, a 23 anni, disse loro che voleva sposarsi, lo lasciarono andare. Studiava e lavorava. Gli mancavano quattro esami e la tesi, un matto, ma sapevano che ce l’avrebbe fatta. Anche perché avevano conosciuto la fidanzata, una bella bergamasca. E ho detto tutto…

Oggi invece mamma e papà se lo stringono al petto il loro figliolino o la figliolina. “Ma, no, dove vai. Resta qui con noi”. Una iperprotezione che fa paura. E crescono così gli ‘adultescenti’. Senza palle. La stessa situazione l’ho vissuta girando fra le aziende del settore. Spesso mi sono trovato di fronte a quarantenni che per firmare un contratto di poche migliaia di euro per un investimento pubblicitario mi dicevano: “Devo parlarne con mio padre”. Mi cadevano le braccia. Ma quando mai diventeranno adulti? E quando il padre non ci sarà più? E allora, cosa manca? Il coraggio, quello che hanno dimostrato i miei genitori. Il desiderio di essere felici che supera ogni ostacolo. E che ti fa andare avanti malgrado tutto e tutti. Oggi, per ricostruire questa nostra Italia fiaccata dalla pandemia, abbiamo proprio bisogno di questo. Di calciatori che, come cantava De Gregori: “Li vedi dal coraggio, dall’altruismo e dalla fantasia”. Gente che butta il cuore oltre l’ostacolo. E guarda al futuro con speranza.

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