Nelle ore immediatamente successive al rinvio del provvedimento sulla deforestazione, abbiamo raggiunto l’ex parlamentare Ue. Che spiega: “È indispensabile un percorso condiviso con i partner commerciali”.
Di Andrea Dusio
Mercoledì 2 ottobre. In mattinata fissiamo una call con Paolo De Castro. L’ex parlamentare europeo, già ministro dell’Agricoltura, ha seguito nella scorsa legislatura l’iter del regolamento Eudr sulla deforestazione, diventato negli ultimi giorni di grande attualità, a causa dell’imminente entrata in vigore a fine anno. Nel primo pomeriggio giunge la notizia che l’applicazione della nuova norma è stata rinviata di un anno.
Paolo De Castro, tutto risolto dunque?
Per niente. Il problema del regolamento sulla deforestazione, che doveva entrare in vigore il 1° gennaio 2025 ed è stato rinviato di 12 mesi, resta molto importante. Non tanto nel merito, su cui difficilmente si può essere contrari, ma nel metodo. L’applicazione del provvedimento va gestita in maniera operativa, non semplicemente mettendo una data, come se il resto del mondo fosse tenuto a organizzarsi per rispettarla. Uno degli errori della precedente Commissione europea, per quanto riguarda i temi di carattere ambientale, è stato quello di definire i target senza spiegare come raggiungerli. L’esempio più eclatante è stato il regolamento sui fitofarmaci. Tutti vogliamo ridurli, ma il legislatore è chiamato a stabilire anche le modalità, altrimenti come possono gli agricoltori combattere le malattie? Il caso del regolamento della deforestazione è analogo.
Cosa deve fare adesso l’Ue?
Occorre costruire un percorso con i partner indonesiani, asiatici e dell’America Latina. Non ha senso fare un’operazione di forza. Anche perché l’Europa non è più nelle condizioni di 20-30 anni fa: il quadro del commercio mondiale è radicalmente mutato. L’Europa deve sapere che gli altri continenti ormai producono per tutte le aree del pianeta. Detto un po’ brutalmente: possono ‘fregarsene’ dell’Europa. I brasiliani daranno la soia ai cinesi. Gli indonesiani daranno l’olio di palma agli indiani. O si stringono accordi con questi Paesi, portandoli su posizioni condivise, oppure si rivolgeranno altrove. Non si può imporre nulla. Se l’Europa applica un provvedimento ‘a freddo’ otterrà solo che i produttori si rivolgeranno ad altri mercati. Vi sarà spazio così solo per alcuni grandi speculatori, che probabilmente sono anche in grado di vendere il prodotto certificato, ma a costi altissimi. Mettendo così in ginocchio, per quanto riguarda i mangimi, la zootecnia europea.
Qual è il rischio reale per il nostro sistema agroalimentare?
Solo costruendo un percorso con i Paesi produttori si arriva alla valorizzazione del prodotto certificato. La precedente commissione, sotto l’egida di quel Frans Timmermans che ha dato il proprio imprinting a molti provvedimenti, ha fissato un obiettivo giusto, senza preoccuparsi poi delle lacune enormi dal punto di vista delle modalità di applicazione. Teniamo presente che, se consideriamo le proteine vegetali, l’Europa importa il 70/80% del proprio fabbisogno. In qualche caso si arriva al 90%. Se noi domani non avremo la soia proveniente da determinate aree, ci ritroveremo a non avere il Parmigiano Reggiano, il Grana Padano, il Prosciutto di Parma, perché i prodotti tipici andrebbero in crisi con l’impossibilità di praticare un certo tipo di allevamento. Non si tratta di aspetti banali. I partner hanno tutto l’interesse a venderci i loro prodotti, ma dobbiamo fare in modo che i processi siano compatibili con la logistica, con i container, con il traffico marittimo internazionale. Dobbiamo istituire delle certificazioni concepite alla fonte, direttamente nei campi, perché lì deve partire il percorso.
Diamo dunque un’agenda Eudr per il 2025. Tra 12 mesi cosa dovrà essere fatto?
Non va fatto l’errore di limitarsi alla proroga. Bisogna creare le condizioni operative concrete per riuscire ad applicare un regolamento giusto nel contenuto, ma ad oggi tecnicamente impossibile da attuare.