La guerra del pelato

2021-05-07T14:58:59+02:007 Maggio 2021 - 14:58|Categorie: Grocery, in evidenza, Ortofrutta|Tag: , , , , |

La Campania avanza la richiesta per ottenere la denominazione Igp per il pomodoro di Napoli. Ma la Puglia non ci sta. Tra conflitti e incomprensioni territoriali, è ancora aperta la sfida che rivendica la paternità dell’ortaggio allungato.

È in totale fermento il comparto del pomodoro italiano. A tenere banco negli ultimi mesi è la presunta faida che coinvolge Puglia e Campania. Al centro del dibattito, la paternità del pomodoro allungato. La storia inizia nel 2017, quando la regione dello ‘sceriffo’ Vincenzo De Luca richiede la certificazione di Indicazione geografica protetta per il pelato di Napoli. “È stato un lungo e impegnativo lavoro che mi auguro produrrà importanti risultati”, sottolineava all’epoca il presidente del Comitato promotore per il marchio di tutela del pomodoro pelato, Lino Cutolo. “L’Indicazione geografica protetta del pomodoro pelato, mettendo in evidenza le caratteristiche del prodotto, la qualità, la tradizione, la genuinità e il forte legame con il territorio, potrà portare a una ripresa del mercato, da anni in continua flessione”. Anche Anicav (Associazione nazionale degli industriali conservieri) si era detta soddisfatta di questo traguardo. A tal punto che aveva assistito il Comitato promotore nel processo istruttorio della domanda.

È inizio marzo 2021 quando il ministero delle Politiche agricole e forestali accetta la richiesta per la denominazione Igp, suscitando non poche polemiche. Non ci sta la Puglia, che rivendica l’esclusiva sul pomodoro a punta. “Bisogna uscire dalla grande ambiguità di commercializzare un prodotto che può fregiarsi di un marchio comunitario così fortemente distintivo, senza che ci sia alcun obbligo di utilizzare i prodotti agricoli del territorio al quale l’indicazione si ispira”, spiega Savino Muraglia, presidente Coldiretti Puglia. “Il 40% del pomodoro italiano viene proprio dalla Capitanata (Fg), che da sola produce il 90% del pomodoro lungo”. Non si fa attendere la risposta napoletana. Il comitato promotore, infatti, ha chiarito che il disciplinare proposto non riguarda la materia prima, ma il prodotto finito trasformato. “È utile ricordare che il riconoscimento di una Igp deve essere legato a una sola delle fasi di ottenimento del prodotto (produzione agricola o trasformazione industriale) che deve avvenire in una specifica area geografica, come nel caso della Bresaola della Valtellina Igp, la cui trasformazione avviene in un areale determinato”, controbatte la fazione partenopea. “La materia prima utilizzata può provenire da qualsiasi territorio. Come nel caso della Burrata di Andria Igp, il cui disciplinare impone che i caseifici che la trasformano devono essere in Puglia, ma nessuna area produttiva del latte è imposta”.

Il pomodoro, che in questo caso viene processato nelle 24 ore successive alla raccolta, dovrà necessariamente provenire da zone vicine. Prosegue il comitato campano: “Privilegeremo, naturalmente, le aree storicamente vocate alla coltivazione della tipologia allungata, in particolare la provincia di Foggia che potrà ottenere grandi vantaggi dal riconoscimento della Igp”. La richiesta, infine, allude al fatto che Napoli non sia da intendersi come singola città, ma come emblema del Mezzogiorno. A beneficiare della denominazione, quindi, sarebbe l’intera filiera del pomodoro meridionale. L’offerta di pace, però, non sembra aver avuto l’effetto desiderato. Anzi. Le parole di Donato Pentassuglia, assessore pugliese alle Politiche agricole, non lasciano spazio a interpretazioni: “Ho già avuto contatti con il Mipaaf, stiamo istruendo il fascicolo e a breve sarà pronto. Non arretreremo nemmeno di un millimetro”. Il ricorso, quindi, è dietro l’angolo.

Morale della storia? Non si è ancora arrivati a un accordo che soddisfi entrambe le parti. La questione è rimasta in sospeso, accantonata momentaneamente in un angolo. E la ragione potrebbe ricercarsi in una nazione che, a 160 anni dall’Unità, è ancora dilaniata da incomprensioni territoriali. E anche in tema di cibo (che rimane il nostro più grande vanto all’estero), non riesce ad arrivarne a una. Ma ne vale davvero la pena?

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