Italian Sounding: quanto c’è di vero?

Il falso made in Italy sarebbe alla base di un mancato export pari a circa 60 miliardi di euro. Ma le argomentazioni non convincono. Meglio concentrarsi su semplificazione della burocrazia e cultura dei prodotti all’estero.

di Federico Robbe

Il tema dell’Italian Sounding è ormai un po’ come lo sbarco sulla Luna o il fatto che la Terra sia rotonda. Mi spiego: chi prova anche solo a instillare qualche dubbio sulla sua veridicità, viene dato per matto. E in questo caso, anche con l’aggravante di essere nemico della Patria.

La vicenda non è certo nuova: se ne è discusso al recente Forum Food&Beverage di The European House Ambrosetti e da oltre un decennio è diventata il mantra di osservatori di varia estrazione e associazioni (in primis Coldiretti) che dibattono su come far crescere il nostro export.

Non è una novità neanche il balletto di cifre su quanto valga effettivamente: 50, 60, 90, 120 miliardi? Non si sa. Calcolarlo con precisione è impossibile, d’accordo. Ma può essere che secondo alcuni valga 60 miliardi e secondo altri addirittura il doppio? La domanda resta aperta. Ma a parte queste quisquilie – che saranno mai 60 miliardi di differenza – il vero tema è un altro: di solito si condanna questa pratica equiparandola a uno ‘scippo’ perpetrato dai falsi prodotti italiani in giro per il mondo.

Ma è davvero così? Per tentare di rispondere, intanto bisogna dire che l’export agroalimentare vale circa 59 miliardi di euro nel 2022 (Fonte: The European House – Ambrosetti). L’incremento rispetto a 10 anni fa è di circa l’80%, mentre l’Italian Sounding stimato all’epoca era sempre 60 miliardi: un fatto curioso che la dice lunga sulle modalità di calcolo del famigerato ‘scippo’.

Il fenomeno dell’Italian Sounding, sempre secondo dati Ambrosetti, vede in testa gli Usa con un business da 3,5 miliardi di euro, seguiti dalla Germania con 3,4 miliardi, dal Regno Unito con 2 miliardi, dalla Francia con 1,2 miliardi, dal Giappone con 532 milioni e altri.

In questi mercati, secondo la vulgata, ci sarebbe una distribuzione capillare di prodotti non italiani che si spacciano per eccellenze tricolori. Prendiamo l’arcinoto Parmesan, reo di sottrarre spazio al Parmigiano Reggiano e al Grana Padano. Nella categoria, in media, il formaggio Italian Sounding occupa il 61% degli scaffali, mentre i Dop e i ‘veri italiani’ occupano il 39%. Ma sono prodotti neanche lontanamente comparabili in termini di gusto e costi di produzione. Il Parmesan è più morbido, di dimensioni più piccole, meno stagionato e più economico delle nostre Dop. La materia prima è più a buon mercato e la lavorazione meno impegnativa, inoltre si abbattono i costi di trasporto.

Proprio il fattore prezzo gioca un ruolo cruciale: i prodotti Italian Sounding costano il 69% in meno in Regno Unito e Germania, il 65% in Belgio e il 50% in Cina. Ma allora bisogna chiedersi: se le vendite di Parmesan dovessero essere soppiantate da quelle di Parmigiano o Grana Padano, quante vacche dovremmo allevare in Pianura Padana? Le Dop hanno dei limiti oggettivi sulla quantità di materia prima disponibile, e l’industria italiana ha una potenza di fuoco ridotta, oltre che elevati standard qualitativi e di prezzo. Morale: quella estera resterebbe una domanda impossibile da soddisfare.

Lo scenario non cambia granché se consideriamo il salame (58% quota Italian Sounding a scaffale), il Prosecco (58%), il prosciutto (59%) e l’olio extra-vergine di oliva (57%). Al netto delle contraffazioni delle Indicazioni geografiche, giustamente punite dalla legge, anche se si facesse piazza pulita dei prodotti Italian Sounding, i consumatori stranieri comprerebbero altre referenze con prezzi simili. E poi, in tema di imitazioni, ci vuole coerenza e reciprocità: se chi sfrutta la notorietà italiana va fermato, dovrebbe valere lo stesso anche per le produzioni di casa nostra che strizzano l’occhio alle specialità straniere. Dunque stop a pancake, pulled pork, ribs di maiale, sushi o poke. Tutto spazio rubato a fior fior di aziende estere? Suvvia, siamo seri. E cerchiamo di facilitare l’export nei mercati ancora poco esplorati lavorando sulla semplificazione della burocrazia e sui programmi di promozione e valorizzazione del buon cibo italiano.

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